C'ERA UNA VOLTA
LUSSINO... sembra il
titolo di un film western, ma non lo è.
Questo è il titolo di un libro di storia vera, vissuta in parte anche da
me (Gabriele, il webmaster) e raccontata da mio padre MARIO; un
racconto scritto da un compaesano di nome Gianni Martinolli.
Dato che non tutti hanno questo libro, vi trascrivo una parte del racconto
di storia realmente accaduta alla mia famiglia.
Chi è un assiduo lettore di libri senz'altro apprezzerà questa lettura
da fare, per gli altri, abbiate pazienza, leggete almeno la conclusione.
BUONA LETTURA!
....... Mi reco a casa sua per
incontrare due compaesani che potrebbero essermi d'aiuto. Si crea subito
un clima di cordialità, si ricompone un piccolo frammento della patria
perduta. Dopo i preamboli e le reciproche presentazioni ("Ma quel
Martinoli è tuo parente?") e la constatazione che i Martinoli o
Martinolich di Lussino sono numerosi (fatte le debite proporzioni) come i
Rossi e i Bianchi in Italia e che, tra cuginanze, lignaggi, stirpi,
affinità più o meno prossimi, siamo tutti parenti (ma i lussignani non
hanno certo sofferto di degradi genetici), si arriva, alla fine, ad
affrontare il tema, anzi la ragione dell'incontro. Si tratterebbe di
raccontare, far rivivere l'atmosfera, le vicissitudini, Ie trasformazioni
di Lussino negli anni immediatamente successivi alla fine del secondo
conflitto mondiale e MARIO mi sembra, con la sua rievocazione precisa,
quasi puntigliosa, la persona più adatta. Mi pare di aver trovato un
filo, una guida attendibile. - Dove ti
trovavi - chiedo - nel
momento in cui si concludeva la guerra guerreggiata e iniziava il nostro
calvario di istriani,, quarnerini e dalmati'?
- Nel maggio del 1945 - risponde MARIO - ero marinaio e mi trovavo a
Taranto, imbarcato sulla nave "Garigliano", destinata al servizi
speciali (trasporto di carbone, di prigionieri, di feriti ...). Si faceva
un po' di tutto e ci si spostava da una base all'altra del Mediterraneo.
La mia condizione militare è stata abbastanza singolare: ho cominciato e
concluso la guerra sempre sotto lo stesso comando della Marina; solo che
all'inizio si combatteva contro gli inglesi, francesi ed americani e, alla
fine, mi son trovato alleato degli ex nemici. Dopo l'armistizio dell'8
settembre del '43 abbiamo corso il rischio, esattamente a Bonifacio in
Corsica, di essere fatti fuori dai tedeschi. Ma una serie di fortunate
circostanze ha consentito di uscirne vivi, di trasferirci in Sardegna e
da
lì a Taranto, dove siamo stati inquadrati nel dispositivo militare
anglo-americano. Concluse le operazioni belliche, mio pensiero più
assillante era quello di rientrare a LUSSINO dopo due anni di assenza; ero
giovanissimo (avevo 23 anni) e sentivo una grande nostalgia della mia
isola e dei miei genitori, che ignoravano la mia sorte.
Non avevo idea della situazione di LUSSINO; non sapevo se era rimasta all'
Italia, se era militarmente occupata da stranieri. Ero solo un giovane
ignaro, cui del resto da due anni non giungeva una riga di corrispondenza.
- Dunque,
- gli chiedo - hai pensato di rientrare
a Lussino?
- Esattamente. - mi risponde Mario - Si trattava innanzitutto di arrivare
a Venezia, e questo era possibile, e poi con mezzi propri avventurarsi
verso Trieste e, attraverso Pola, raggiungere Lussino. Possedevo solo
cento lire, che, grosso modo, mi avrebbero consentito di comperare quattro
panini. A Venezia, in un caos indescrivibile di soldati, marinai,
imbarcazioni, voci, notizie contraddittorie, ma, soprattutto, in un clima
di "tutti a casa", dovevo risolvere il problema del mio viaggio
a Trieste. Con quel mio poverissimo gruzzolo il problema mi appariva
estremamente complesso. In più, ero affamato e nessuno se ne preoccupava.
In quel frangente alquanto angoscioso incontro un ufficiale di marina di
Trieste. Scambio qualche parola con lui e gli confído il mio problema.
Senza tanti preamboli, il giovane triestino mi invita a seguirlo e mi
presenta ad un camionista che, in cambio di cento lire, effettuava il
trasporto di noi sopravvissuti alla guerra verso Trieste.
I soldi non c'erano più, ma il provvidenziale amico (mandato da chi?)
paga per me e per un mio occasionale compagno. Così, sullo scomodo, ma
inaspettato mezzo di trasporto, ci mettiamo in movimento. Ad ogni fermata
a richiesta la ressa si fa meno opprimente ed il viaggio comincia a
diventare quasi piacevole. A Trieste, corro da una mia carissima zia
(com'era semplice allora chiedere e trovare ospitalità) che mi accoglie
commossa. Qualche giorno dopo arriva anche mio fratello. Ci abbracciamo
felici. Siamo ancora vivi. L'Europa ed il mondo sono stati quasi distrutti
dal grande incendio della guerra e noi siamo ancora in vita, con la
prospettiva di ritornare a Lussino, dai genitori, nella nostra casa.
Già pregustiamo la festa.
Ci sembra che la nostra esistenza abbia subito una svolta straordinaria;
ci pare di vivere una realtà meravigliosa.
Riusciamo a “sfondare” la cortina dei controlli, perquisizioni,
interrogatori e raggiungiamo POLA, dove altri occupanti sembrano
consentire una maggiore libertà di movimento. Si respira un'altra aria
per il momento. Il problema è trovare un'imbarcazione che ci riporti
nella nostra isola. Dove sono i bei tempi dei servizi marittimi regolari
della "San Giorgio", della "San Giusto" e poi della
motonave "Morosini" sulla rotta Venezia-Trieste, Pola, Lussino,
Zara e ritorno? Il Quarnero con il suo blu intenso, con il fascino dei
suoi abissi misteriosi e i repentini cambiamenti del tempo è l'ultimo
ostacolo da superare prima di raggiungere la casa di Lussino, il nostro
nido di affetti. Una barca, un pò sgangherata, di due sansegoti (un
vecchio bragozzo di 8 metri) ci sembra la soluzione del nostro problema;
per qualche lira, dono della zia, (e non sono poche) combiniamo l'affare.
Da un attracco alla buona sulla costa la barca si mette in movimento. Io e
mio fratello siamo esultanti. Il mare è mosso da un vento leggero che fa
beccheggiare l'imbarcazione. Appare l'isola di Cherso, maestosa e
azzurrognola sulle onde e proseguiamo lungamente a vista dei profilo
brullo delle coste, finché scivolando oltre il biancore ordinato ed
arioso dell'abitato di Unie, raggiungiamo la solitudine di Canidole
Grande.
Qui accade un fatto inatteso.
I nostri marinai ci annunziano, senza tanti complimenti, che il viaggio è
finito e che non hanno nessuna intenzione di trasportarci fino a Lussino.
Protestiamo con tutte le nostre forze, accampiamo le nostre ragioni,
ricordiamo i patti. Tutto è inutile. La gioia del ritorno è un po'
guastata. Intanto il nostro infedele equipaggio riprende il mare e punta
diritto verso l'isola di Sansego, che emerge sulla distesa delle acque
come il dorso di una immensa balena. Restiamo per qualche ora sulla landa
silenziosa di Canidole finché con gli ultimi soldi (davvero ultimi)
noleggiamo una barca a remi che ci libera da quella momentanea condizione
di naufraghi abbandonati su quella solatia isoletta, animata dai pochi
abitanti dediti alla coltivazione degli ortaggi, delle vigne e alla pesca.
Ora la sembianza inconfondibile di Lussino si delinea nitida, vicina,
familiare. Ci volgiamo un attimo a contemplare Sansego; ricordiamo i
vigneti coltivati sui terrazzamenti, il vino dal singolare sapore di
salsedine, i costumi delle donne…Poi ci sovviene il recente raggiro di
cui siamo stati vittime e lanciamo qualche imprecazione. Ma ormai l’
approdo è imminente. Puntiamo per ragioni di sicurezza (la Valle
d'Augusto è affollata di natanti militari) verso Lischi, íl punto più
vicino a Canidole. Finalmente. come in un rito sacro, poggiamo il piede
sul suolo di Lussino che pensiamo ancora nostra. Provo la strana
sensazione di un annullamento improvviso di tutti gli eventi, gli affanni,
le incertezze di due anni di lontananza.
Siamo a Lussino, ma la casa è ancora distante.
A piedi sotto la sferza del vento e della pioggia (quasi una forza ostile
volesse ricacciarci indietro) ci dirigiamo per un putic (stradina) verso
Chiusi.
Il passo è veloce ' siamo madidi di sudore e intirizziti dal freddo. Se
fosse possibile ci abbandoneremmo all'istinto di correre. Ma le forze sono
ormai quasi del tutto esaurite e, raggiunta Chiusi, accettiamo volentieri
l'ospitalità di alcuni amici che ci riconoscono e ci fanno festa.
Trascorriamo una notte quasi insonne affollata di gente infida, di barche
che ci abbandonano. di immagini di guerra, di volti amati. Specialmente
una sembianza domina i brevi abbandoni al sonno: il volto di mia madre,
che, già informata del nostro imminente arrivo, sta attendendoci ansiosa.
E’ l'alba.
Il sipario plumbeo delle nuvole del giorno prima s’è alzato d’incanto
sullo scenario ancora rorido dell'isola. Un vapore leggero avvolge le
case, i rilievi, la strada, per noi ancora lunga. Quell'ultimo tratto di
cammino, con il sentimento dell'incontro imminente con i nostri cari,
moltiplica la nostra determinazione e il nostro incedere si fa più
rapido. Ecco il Ponte di Privlaca, lo Squero e, allineati, quasi ad
attenderci con solennità, i palazzi delle Rive. Il sole si è innalzato
in un cielo che pare più azzurro che mai.
Siamo a Budovina. La mamma è a pochi passi. L'abbraccio è tenero,
interminabile.
Lo specchio della Valle, ancora immersa in una sorta di tranquilla
immobilità, non ancora dominato dall'andirivieni delle imbarcazioni, è
testimone di quel ricongiungimento che sembra l'inizio di una felicità
insperata.
Ma cosa sta succedendo a LUSSINO?
In breve vengo informato degli ultimi eventi bellici e politici che si
sono abbattuti sulla nostra isola.
Tuttavia, è tale in me l’entusiasmo e la gioia per quel ritorno che le
notizie infauste non hanno particolare risonanza dentro di me: mi
sembrano ancora estranee, lontane dalla mia vita.
In fondo, sono vivo, sono ritornato a casa mia.
Le cose intorno a me sembrano rimaste immutate. C'è sempre quell'aria
tersa e vivificante, il mare non è cambiato, le giornate sono splendide
come un tempo. Per quale ragione, dunque, dovrei dar peso a taluni segnali
di preoccupazione, a frasi rimaste tronche, a parole subito ritrattate?
Qualche giorno dopo ritorno in Squero al mio posto di lavoro. La
situazione del cantiere è precaria. Il lavoro è scarso; praticamente le
attività che avevano dato lustro all'arsenale, fucina di velieri maestosi
e di navi, sono ridotte al minimo. Si costruisce qualche piccola
imbarcazioe; si riparano barche da pesca per conto di proprietari
dalmati. Ma intanto, pian piano, il cantiere passa sotto il controllo dei
militari che si improvvisano dirigenti. E comincia per me una nuova
esperienza. Nasce il "lavoro volontario" per il bene del popolo
lavoratore. Dobbiamo impiegare molte ore per il Conseguimento di obiettivi
stabiliti dai nuovi padroni.
Ci viene raccomandato di partecipare alle varie riunioni politiche, che
hanno la precisa finalità di persuadere tutti (ma specialmente noi
italiani) che l'avvenire radioso di Lussino si chiama socialismo e
annessione alla Jugoslavia di Tito.
Sopporto a fatica quella opprimente e becera propaganda.
Un giorno vengo convocato da uno dei nuovi capi e invitato ad iscrivermi
al sindacato unico. Obietto: a che serve il sindacato se siamo già
governati dai poteri popolari? 0 il governo è contro i lavoratori e
allora serve il sindacato (ma saremmo in un paese capitalistico) oppure,
ed è il caso nostro, siamo governati dal popolo e, di conseguenza, è
inutile un'organizzazione a difesa dei lavoratori. Sarebbe un doppione. Il
mio interlocutore non coglie il senso ironico del mio ragionamento e
rimane perplesso. E, del resto, è logico che sia così. Di solito il
potere si serve di uomini rozzi ed ottusi, che si esprimono con slogans e
luoghi comuni e sono incapaci di uscire solo un momento dal copione loro
affidato. Dopo quel colloquio mi lasciano in pace, almeno per un po' di
tempo. Intanto, si profila la visita della commissione intervallata che
dovrà accertare i sentimenti della popolazione di LUSSINO in vista del
Trattato di pace di PARIGI del 1947. "Liberamente", come al
solito, siamo assegnati ad un nuovo compito: deturpare le facciate delle
case e delle ville più in vista con scritte inneggianti a Tìto, alla
Jugoslavia, alla libertà dei popoli. Soprattutto occorre mettere bene in
evidenza la libera volontà dei lussignani di passare sotto la repubblica
del maresciallo Tito. Così impariamo a scrivere con geometrica
precisione: "Hocemo Tito" e a disegnare la bandiera bianca,
rossa e blu con relativa stella rossa accanto o sopra la predetta scritta.
La moglie del console mi corre incontro, mentre io ed altri "liberi
lavoratori" ci avviciniamo alla sua villa con secchi, pennelli ed
altri arnesi. Immagino che voglia implorami di non consumare quello
scempio sulla facciata della sua graziosa casa.
- Signora Alice
- le dico sommessamente - son qui
contro la mia volontà. Sa il cielo quanto mi costa questo mortificante
lavoro!
- Capisco.
- mi risponde rassegnata la signora Alice - Del
resto vi conosco e so che non avreste mai concepito di imbrattare così le
nostre case. Ma vi prego, se dovete dipingere quella bandiera, almeno
mettete tutto il vostro impegno perché riesca bene. Sarà
una bandiera che non avrei mai voluto veder dipinta sulla mia casa, ma sia
almeno una bruttura decorosa.
La signora si ritira in casa e noi eseguiamo con la morte nel cuore il
nostro compito iconoclasta.
Nel frattempo Lussino cambia radicalmente la sua anima ístro-veneta.
Tante case provvisoriamente vuote o nazionalizzate vengono riempite
rapidamente dai nuovi venuti della variopinta Repubblica Federativa e dei
paesi contermini, da Beli, da Ustrine, da Valun. La lingua dominante
diventa il croato, le istituzioni italiane cominciano a languire fino alla
loro scomparsa. Gli uffici pubblici espellono la lingua nazionale e nuovo
personale rimpiazza i vuoti dell'esodo. Solo qualche lussignano
particolarmente esperto viene costretto a rimanere per garantire la
"continuità". A molti viene negata l'opzione e sono costretti a
rimanere loro malgrado.
Penso alla Ketty, Gherbaz. al MARIO MARTINOLI e al loro dramma.
Il MARIO MARTINOLLI per anni continuerà ad interessarsi di botanica, di
alberi genealogici (la botanica delle generazioni) e discretamente
costituirà un punto di riferimento per quanti vorranno conservare nelle
memoria i mille elementi della civiltà lussignana.
In quel quadro di desolazione impera una diffusa, lancinante, mortificante
penuria di beni economici. Si potrebbe parlare di miseria se non facessimo
i conti con l'industriosità dei lussignani e dimenticassimo che, oltre il
margine delle coste, il mare pullula di buon pesce. Per il resto, ci si
affida a qualche aiuto (ricordo ancora i pacchi di farina che arrivavano
attraverso il servizio postale).
Da Lussino le lettere giungono spesso tinteggiate dall'inchiostro nero dei
censori, che evidentemente occultano espressioni come "manca
tutto", "si stava meglio sotto l'Italia", e simili,
forrnulate da persone ignare della nuova realtà politica. Personalmente
ho visto qualche anno dopo in Italia, quelle strane lettere listate a
lutto: forse il lutto che contrassegnava la lecita agonia della mia
patria.
A misura in cui i nuovi venuti prendono confidenza con Lussino, i rimasti
(per amore o per forza), i reduci della guerra appaiono sempre più fuori
posto. Paradossalmente noi lussignani siamo i foresti e loro, i
conquistatori, sono gli autentici abitanti, i veri cittadini di Lussino.
Un sentimento di oppressione e di insofferenza si fa strada nel mio animo,
non riesco ad adattarmi alla retorica del regime, al clima di
intimidazione all'autocensura delle parole e perfino dei pensieri. Si ha,
infatti, paura anche di pensare "contro".
Intanto, il parroco don Ottavio, una figura patriarcale ed amata, il cuore
dell'estrema resistenza lussignana, viene accusato di traffico di valuta.
Molti lussignani finiscono in prigione. Alcuni scompaiono. Si respira il
clima della repressione e della pulizia etnica, ossessione di un
nazionalismo, cui la tragedia della seconda guerra mondiale sembra non
aver insegnato nulla. Solo nei momenti di tregua dal lavoro, sulla mia
barchetta, tra la Valle Scura e Poliana, respiro l'aria della libertà.
Pescando a panola, tirando cioè la lenza con esca finta su tre ami, vado
a caccia dei preziosi branzini. Sulle secche riesco spesso a prendere i
dentai (dentici), mentre più al largo, sempre a panola, ma con un amo
solo vado alla pesca dei suvri (o suri), che spesso mi gratificano cadendo
docilmente in trappola. Nel silenzio dei mare, lontano dallo Squero,
dagli uffici, dagli sguardi di diffidenza, dall'intreccio di parole
furtive scambiate in famiglia, godo dell'aria della libertà. Sono un
piccolo uomo di questo pianeta, partecipo, come tutti, alla sofferenza che
mi stà intorno, ma qui, al dondolio lieve della barca, sotto un sole
ancora tiepido, mi sento completamente affrancato da ogni limite umano e
sento la mia condizione di figlio di un Dio che ha creato il mondo, ma non
i confini, e che ha voluto i popoli, ma non la sopraffazione dei vincitori
sui vinti.
Lontano il Monte Ossero domina la sequenza, a perdita d'occhio, di baie e
promontori e sembra vigilare su quello scenario di azzurra felicità. Al
largo di Criviza, di fronte alla bella baia sovrastata dal monte San
Giovanni, concludo la mia giornata con un'abbondante pescata di riboni:
tanta rosata pescagione che rallegrerà, ancora guizzante, la mia
famigliola al ritorno.
Il 1° di maggio, celebrato con sfarzo propagandistico, siamo invitati (si
fa per dire) a scendere tutti in piazza. Sarà bene farlo per non essere
iscritti nel libro nero dei dissidenti. Così il regime può annoverare
adesioni, che tali oggettivamente non sono.
La costruzione della Strada Nuova (una specie di circonvallazione) viene indicata come
un obiettivo da realizzare quanto prima, anche con il contributo dei
lavoro "volontario". Ormai la mobilitazione di tutti i cittadini
non conosce limiti. Siamo alla mercè di un potere che può decidere
qualsiasi cosa e proclamare verità le più palesi menzogne. Viviamo
nell'inganno e, soprattutto, siamo costretti ad ascoltare come fondate le
più pacchiane ricostruzioni della storia di Lussino in funzione delle
ragioni politiche e nazionali dei vincitori. Il motto di noi superstiti
lussignani è subire sempre e, soprattutto, tacere. Nasce in noi una nuova
dimensione, una categoria cui non eravamo adusi: il silenzio, la
restrizione mentale, il dire e non dire. Esattamente il contrario del
nostro stile di relazionare, fatto di franchezza, di impietose battute, di
autenticità. Diventiamo "diplomatici", ma d'una diplomazia
coatta, grigia, che spegne la nostra estroversione, la nostra abituale
allegria.
Ci porteremo dietro questa nuova inusuale attitudine anche nei luoghi
della libertà.
Il panorama di LUSSINO si arricchisce di un nuovo fenomeno: le code. Se
arriva il latte o la carne, vedi formarsi delle code interminabili,
composte e pazienti. Ma anche le bottegucce del pane sono assediate da
tenaci massaie in attesa. Tutto è precario e difficile: sembra che la
guerra non sia affatto conclusa, ma anzi continui in maniera ancor più
micidiale.
- Con la morte della madre (gennaio 1957) - mi confida Mario - l'ultima
ragione per rimanere a Lussino viene meno. Una notte - prosegue Mario - in
uno stato d'animo di tristezza, per tutta la situazione che ti ho
descritto e per la perdita della mamma, decido di uscire di casa e di
salire sulla mia barca per andare nella Valletta di Trasuorca dopo
Rovenska a pescare i calamari. Vivo un'esperienza emblematica: una lotta
contro l'angoscia nelle tenebre per sfidare e vincere le ombre interiori.
Esco da quella esperienza con una precisa decisione: fuggire, andarmene
quanto prima.
Siamo nel 1957. Dal ritorno a Lussino sono trascorsi 12 anni. Nel
frattempo mi sono sposato; ho due figli di tre e di otto anni. Non voglio
che la mia famiglia viva in un mondo così opprimente e senza prospettive
d'una esistenza libera e serena. Nel momento stesso in cui prendo quella
decisione passano nella mia memoria, come in sequenza filmica, tante
immagini gioiose della mia infanzia, dei miei genitori, degli amici, della
scuola.
Sò che devo compiere un passo doloroso: staccarmi da tutto ciò che fa
parte di me stesso, affrontando un avvenire incerto e pieno di incognite.
Stò piangendo in silenzio, eppure mi sento interiormente sollevato.
E’ notte, siamo in Valle Scura. In una passera di quattro metri da me
personalmente costruita, con un motore rabberciato alla meglio, una
bussola, realizzata con la cassa di una sveglia, e due remi, ci
imbarchiamo in sette persone: io, mia moglie, i miei figli, una signora di
cinquant'anni, suo figlio ed un amico. Siamo stipati come sardine, senza
protezione alcuna. Non abbiamo neppure un'incirada (una tela cerata) che
ci protegga dalla pioggia fredda e sottile che sta cadendo da due giorni.
Il buio è totale; nel silenzio rotto solo dal tonfo misurato dei remi,
mentre quasi tratteniamo il fiato, fuori per le strette di San Pietro e
Cornù (l'estrema punta di LUSSINO) ci portiamo al largo. Quando riteniamo
che nessuna motovedetta jugoslava possa ormai intercettarci, accendiamo il
motore. E’ un momento emozionante, carico di sospensione ansiosa. Tiro
con forza la cordicella dell'avviamento e subito, allegramente, il motore
ci risponde con il suo borbottio pieno di vigore.
- Evviva, siamo davvero in viaggio! -
Puntiamo verso Ancona, dopo aver messo a punto la prodigiosa bussola che,
malgrado tutto, si dimostrerà tecnicamente perfetta. Soli, in mezzo
all'Adriatico, mentre un freddo maestrale investe i nostri corpi
intirizziti ed il mare comincia ad agitarsi sempre più violento, sentiamo
di essere nelle mani di Dio; abbiamo la consapevolezza che la nostra
salvezza è affidata a Lui e a quel motore che potrebbe spegnersi da un
momento all'altro. Ed infatti un'ondata più violenta delle altre avvolge
la nostra imbarcazione e investe il motore, che, per qualche secondo,
comincia a tossire, a bofonchiare, a rallentare la sua corsa fino al punto
che pare fermarsi. Miracolosamente, il borbottio amico si fa risentire
rassicurante e, con impegno, pensiamo adesso, con recipienti vari, a
svuotare la passera dall'acqua che abbiamo "imbarcato". I
movimenti cui siamo costretti attenuano un poco il freddo che attanaglia
le nostre membra. Siamo al culmine della paura. I bambini piangono, la
signora cinquantenne, senza ritegno alcuno, maledice il momento in cui ha
deciso di imbarcarsi per quell'azzardato viaggio. lo, capitano
improvvisato, cerco di rincuorare i passeggeri, ma l'impresa mi risulta
difficile. Le onde sono sempre minacciose, il soffio del maestrale è
gelido (siamo in gennaio). Cerco de bordegiar, cioè di andare a zig zag
contro il vento e le onde e, intanto, imbarchiamo altra acqua che
velocemente eliminiamo, con le gambe immerse talora fino alle ginocchia.
Le ore trascorrono così, in una tensione continua, attenuata dall'impegno
di tutti noi nel raccogliere e gettar fuori dalla barca l'acqua che le
onde impietosamente ci scagliano addosso. Ormai l'approdo non dovrebbe
essere lontano, purché il motore continui prodigiosamente a fare il suo
dovere. Un lieve chiarore, una lama sottile di luce comincia a delinearsi
di fronte a noi, dilatandosi e accendendosi fino a consentirci di scorgere
in lontananza il Promontorio del Conero e gli edifici più alti di ANCONA.
Un grido di gioia, una preghiera di ringraziamento si levano dalla nostra
piccola caravella, che ora sta entrando nel porto marchigiano. Una folla
di cinquecento persone (avvertite da chi?) si è raccolta sul molo e
saluta con un applauso il nostro attracco dopo la pericolosa traversata. I
funzionari portuali che ci accolgono e ci sottopongono agli interrogatori
di rito, si congratulano con noi per il coraggio e la perizia dimostrate
in quella impresa: -Signor
Mario - mi dice il capitano di porto
- non si monti la testa, ma lei ha
compiuto un'impresa degna di Cristoforo Colombo.
Io, da parte mia, mi sento un semplice, piccolo uomo, che, con un poco di
esperienza di mare e con molto sostegno della provvidenza, è riuscito a
trovare la sua "libertà".
Sono passati quasi quarant'anni da quella drammatica fuga da Lussino e
dalla successiva odissea da un campo profughi all'altro. Ora Mario vive a
Monfalcone e, proprio nell'ambito di una società velica dedicata ad un
lussignano insigne, Oscar Cosulich, s'è costruita una bella barca, con la
quale compie le sue sortite nel Golfo di Trieste a fronte degli azzurri
promontori istriani. Oltre quei moli naturali, lanciati verso il mare
aperto, Mario, mentre assorto con ascetica pazienza attende di percepire
con l'indice lo strattone della menola ignara o di qualche pesce più
pregiato, sente la presenza di Lussino, rivive interiormente gli anni
della sua spensieratezza isolana. Adesso, nella lontananza, nel suo esilio
tranquillo e senza assilli economici, Mario comprende con estrema
chiarezza l'immensa felicità che ha illuminato la sua infanzia e la prima
giovinezza. Come non ricordare, con esultanza nostalgica, quelle giornate
trascorse in mare dalla mattina alla sera, in smoio come i fasoi (in
ammollo come i fagioli), finché non accorreva sulla riva la mamma a
ripescarlo e ricondurlo a casa fradicio e rosolato dal sole?
E come non rimpiangere quella rozza batela senza la scaza (il buco in cui
è infilato l’albero della barca) con l'albero tenuto ritto da un
volenteroso, con un lenzuolo per vela, la bandiera dei pirati e le
battaglie sul mare, come dei Sandokan in erba?
Anche ora, nella solitudine del Golfo davanti al castello di Duino e alla
stupenda scogliera, che precipita a picco sulle onde, mentre il mare
frangendosi ritmicamente sull'imbarcazione canta vecchie melodie
lussignane, il pensiero rivede bianche vele in festa per la grande regata,
il porto affollato ad accogliere la "Morosini" e la banda che
esegue musiche liete e briose.
Mentre il sole tramonta, nella nebbiolina che a Monfalcone indugia
abitualmente sulla sequenza di paludi e lagune, la grande luce, l'estate
senza fine di Lussino inonda l'anima e consola il cuore, sempre sul punto
di correre più veloce quando sente la vicinanza della sua patria
incantata.
A sera, dopo la giornata di evasione dall'esilio, ricondotto a casa dalla
forza suadente e saggia degli affetti, Mario racconta ai nipoti la sua
storia più bella, una storia che non finirà mai: "C'era una
volta Lussino .....”.
MARIO
<<.Io, da
parte mia, mi sento un semplice, piccolo uomo, che, con un poco di
esperienza di mare e con molto sostegno della provvidenza, è
riuscito a trovare la sua "libertà">>
Questa era stata l'avventura
dell'attraversata dell'adriatico con una piccola barca, io (Gabriele)
avevo 3 anni, fummo scampati dalle motovedette e dall'insidia del mare,
per tornare in una nazione che avevamo perduta a causa della guerra: l'
ITALIA.
Consiglio la lettura di questo libro (per chi lo trovasse) perchè così
si rende conto di cosa hanno passato o stanno passando le persone chiamate
"profughi" solo perchè sono diventati di un'altra nazione a
causa dei cambiamenti geografici stabiliti da dei concordati o patti fatti
e decisi dai "grandi" di questa terra. GRAZIE!
Vedi il racconto dettagliato nel filmato qui
sotto
RACCONTO
INEDITO
Mi chiamo Enzo,
sono il figlio maggiore di Mario che qui sopra racconta,
appunto, la "storia di Mario".
Mi
permetto di aggiungere un particolare interessante inedito che manca
sul libro di Martinolli e,di conseguenza, sul sito. Mio padre ancora
oggi è orgoglioso di raccontarlo a chiunque.
Prima
di fare questa “appendice” all’opera del Martinolli vorrei
specificare che l’episodio si riferisce all’arrivo nel porto di
Ancona dopo tutta l’avventurosa odissea di mio padre che era
fuggito da Lussinpiccolo in una passera di 4 metri, con la moglie e
2 figli , più tre altre persone (mio fratello Gabriele ed io avevamo
rispettivamente 3 e 8 anni). Nel porto di Ancona, dove il mare era
liscio come l’olio, il capitano di ruolo, dovendo salire nella
piccola passera lussignana, per le dovute pratiche da sbrigare,
prima di metterci piede, disse:”Ma...
è sicura?” immaginate il tono della risposta di mio
padre che, avendo 48 ore di stress sulla sua pelle, disse: “Sicura?
Ma se con essa abbiamo attraversato il Quarnero col mare molto
agitato!!”E poi, quando il capitano vide la
“bussola” fatta con la cassa di una vecchia sveglia e un ago
calamitato, sbottò:
“ Ma le sembra questa una bussola per mettersi in viaggio?
Cristoforo Colombo aveva strumenti migliori per navigare!” E
mio padre, nuovamente esasperato dalla critica inopportuna, disse di
rimando:
“ Se Cristoforo Colombo aveva strumenti migliori non lo so, ma
quel che so è che con questa bussola siamo arrivati dritti in
Ancona..." Finisco questo racconto inedito
allegando una foto di una carta nautica del 1935 che mio padre usava
negli anni dell’esilio.
Sono
segnati: Ossero e Isola Lussino.
Qui sotto: particolare della carta nautica con la data
1935.